La dualità spiegata attraverso la storia della musica italiana
Siamo entrati da pochissimo nel 2022. Tutti, dai più grandi pensatori della Storia della Filosofia, alle Sacre Scritture fino alla New Age, ci hanno spiegato ed insegnato il senso profondo del numero 2. Esso riguarda la dualità, è l’archetipo del Fanciullo, quello stato di innocenza, descritto nei testi sacri e nelle leggende, è l’età dell’oro dove regna l’armonia, l’amore e la felicità. Nel racconto biblico della creazione, all’inizio Adamo è androgino, cioè racchiude in sé entrambi gli aspetti, maschile e femminile. Rappresenta l’essere umano totale, non ancora soggetto alla dualità dell’esistenza. Il numero 2, ha origine con la caduta di Adamo, nella sua scissione uomo-donna che diventa definitiva nell’istante in cui Eva, soggiacendo alle lusinghe del serpente, acquisisce la consapevolezza del bene e del male. All’unità dello spirito segue l’esperienza del mondo, col suo frenetico avvicendarsi di poli opposti: l’Energia Maschio-Femmina, lo Yin e lo Yang, il Cielo e la Terra, l’Ombra e la Luce. I due opposti necessitano l’uno dell’altro; intimamente connessi e insieme in contrasto, operano in armonia per sostenere la vita.
Ebbene, non posso che spiegare questa magnifica dualità con una canzone : Io Vivrò (senza te) di Battisti-Mogol, nelle interpretazioni dello stesso Battisti e di Mina.
Prima però, qualche cenno storico a riguardo: Io Vivrò è stato il lato B del singolo La mia canzone per Maria/Io vivrò (senza te), un 45 giri della Edizione Ricordi uscito nel 1968 in Italia. La mia canzone per Maria era un inedito mentre Io vivrò era un pezzo già conosciuto perché qualche mese prima uscì su un 45 giri di una band inglese, i Rokes (alle registrazioni del gruppo partecipò lo stesso Battisti all’Organo). La versione di Mina che mi piacerebbe analizzare è un Live del 1972, Live a La Bussola Mina e L’Orchestra, una Big Band con ritmica e sezione di fiati.
Le parole della canzone, scritte dal grande Mogol, raccontano del dolore che si prova non appena finisce una relazione. Cominciamo con l’incipit:
Che non si muore per amore
è una gran bella verità,
perciò dolcissimo mio amore
ecco quello, quello che
da domani, mi accadrà….
Io vivrò…. senza te.
Qui Battisti ci insegna cosa significa Accettare la situazione, così come è. Nell’interpretazione di Lucio vi è chiaramente dolore, ma, nonostante tutto, d’amore non si può certo morire e quindi se ne sta lì, in quel patimento, ammettendo a sé stesso, con remissione, la realtà. Il sotto-testo dominante di tutto l’incipit battistiano è : “Eh…. vabbè…sto malissimo, ma questo è“. Nella versione di Mina invece, ci troviamo in una sorta di incipit dell’Adagio di Albinoni, nella quale tutto comincia con un malinconico Organo che rompe il silenzio e subito, siamo catapultati in quelle classiche scene dell’estremo Sud, dove donne vestite di nero si tengono sotto braccio, e nel mentre, stracolme di lacrime, si avviano in Chiesa: stiamo vivendo chiaramente un vero e proprio lutto. Poi, ecco le parole di Mina che, con intensa sensibilità e struggimento, ci portano a capire come lei possa non farsene una ragione della situazione. Il grande sotto-testo miniano di questo inizio di canzone recita questo: sì che si può morire d’amore, eccome! ed io non me ne faccio una ragione di questo … e allora mi struggo.
Stessa cosa la possiamo notare nel grande crescendo che porta all’inciso:
… Solo continuerò,
e dormirò,
mi sveglierò,
camminerò,
lavorerò,
qualche cosa farò, qualche cosa farò sì,
qualche cosa farò, qualche cosa di sicuro io farò:
Piangerò.
Qui, la completa frustrazione nel cercare, anche con un solo semplice impegno quotidiano (tipo camminare), qualcosa per continuare ad andare avanti ma, inevitabilmente, l’unica cosa che possiamo fare, è piangere. Ed ecco come nella versione battistiana, con un blues di chitarra che funge da eco negli intervalli del crescendo (che ricordano molto Neil Young ed Eric Clapton) continui a prevalere questo senso di accettazione, nonostante sia accompagnato dalla presenza del dolore, ovviamente, con un sotto-testo che parla così: “sono triste sì, devo trovare qualcosa da fare, ma mi viene da piangere e….. e quindi piango e, ammetto, che, (quasi quasi), non dico che ci sto bene in questo velo di tristezza (blues) ma …“. Completamente diversa Mina, dove innanzitutto il ritmo del pezzo è molto più rallentato, e qui, appunto con l’orchestra, questa volta sono i fiati a fungere da eco che invece cercano di motivarla, di aiutarla a trovare qualcosa da fare nonostante questa perdita, e in tutto questo continua ad essere onnipresente quella profonda e sensibile sensazione di struggimento e angoscia e …… “e se ritorni nella mente basta pensare che non ci sei, che sto soffrendo inutilmente, perché so, io lo so, io so che non tornerai “….
Così, Lucio Battisti, in questo caso rappresentante dell’energia maschile e detentore dell’accettazione, della consapevolezza e della razionalità. E Mina, rappresentante dell’energia femminile e detentrice della sensibilità, della profondità e dell’intuizione. Essi, uomo-donna, possono completarsi a vicenda fino a prendere forma in un corpo unico, armonioso ed equilibrato.
CURIOSITÀ
Nello studiare queste due versioni e nella preparazione all’interpretazione di tale pezzo, mi è venuta alla mente la storia d’amore tra Davy Jones e Calypso, personaggi della popolare saga cinematografica Pirata dei Caraibi. Nei giorni dei miti e delle leggende, Calypso, figlia di Atlante, domava il mare e tutti i naviganti la amavano e la onoravano. Un giorno ella incontrò un marinaio di nome Davy Jones. I due si amavano più di loro stessi tanto che la ninfa offrì a Jones l’immortalità con il compito di traghettare le anime di coloro che morivano in mare dal mondo dei vivi al mondo dei morti. Se Jones avesse adempiuto a tale compito, egli, ogni 10 anni, sarebbe potuto scendere a terra e stare per un giorno intero con la sua amata. Tuttavia, passati 10 anni, Calypso lo tradì, e, quando Jones finalmente scese a terra, la bellissima ninfa non si fece trovare. Davy Jones, distrutto dall’amore perduto, fu così travolto da grande e profondissimo struggimento, tanto da non poter continuare a vivere, ma allo stesso tempo, tale dolore non era tanto da poter morire. Fu così che si cavò il cuore dal petto e lo rinchiuse in uno scrigno.
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